Premi biennali di narrativa italiana inedita Arcangela Todaro-Faranda
Ha avuto luogo lunedì, 29 settembre, presso la Sala Assemblee della Fondazione Carisbo la cerimonia di premiazione della quindicesima edizione del Concorso “Premi biennali di narrativa italiana inedita Arcangela Todaro-Faranda”.
Erano presenti, assieme a un folto pubblico, due dei tre componenti la Commissione giudicatrice, il prof. Emilio Pasquini, presidente della Commissione e il critico letterario dott. Raffaele Nigro, mentre era assente per ragioni di salute lo scrittore dott. Nerino Rossi. Era pure al tavolo della presidenza la prof.ssa Daniela Gianaroli, che ha svolto il lavoro di preselezione dei concorrenti.
Dopo il saluto e l’ampia illustrazione del Concorso da parte del Presidente dott. Leone Sibani, che si è soffermato sul traguardo raggiunto quest’anno della 15esima edizione, in concomitanza col decimo anniversario della morte del prof. Raffaele Spongano, il prof. Pasquini ha letto la relazione della Commissione giudicatrice, cui sono seguiti gli interventi a commento del dott. Nigro e della prof.ssa Gianaroli.
Sono stati quindi proclamati i due vincitori ai quali è stata consegnata la lettera di conferimento ufficiale del premio di € 1.000 per i racconti ed € 2.000 per il romanzo assieme al loro volume edito dalla Bononia University Press, al volume degli scritti inediti della prof.ssa Arcangela Todaro Faranda, nonché a una copia della pubblicazione Le quindici relazioni, contenente i giudizi comparativi fra i concorrenti selezionati nelle 15 edizioni del concorso.
- Per la Sezione Romanzo ha ricevuto il premio la prof.ssa Rossana Bandini, residente ad Altopascio (Lucca) e docente di letteratura italiana al Liceo di Pescia, con il volume In parti eguali.
- Per la Sezione Racconto è stato premiato il dott. Giovanni Larese, residente a Belluno dove è bibliotecario della Camera di Commercio, che ha presentato la raccolta di otto racconti dal titolo I racconti di Villapluvia.
I due nominativi sono stati selezionati fra i 402 partecipanti al concorso (nella precedente edizione erano stati 277).
Al termine della cerimonia ha fatto seguito un buffet che ha consentito agli intervenuti di complimentarsi con i vincitori e di intrattenersi con i membri della giuria. A tutti è stata poi consegnata una copia dei due volumi vincitori e della nuova pubblicazione Le quindici relazioni.
Premio Todaro-Faranda 2014
Relazione della Commissione giudicatrice
Giunti a questa quindicesima edizione del Premio, i tre membri della Commissione non possono che rallegrarsi dell’alto numero di partecipanti al Concorso, provenienti da tutte le regioni italiane (specie Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana) ma anche dall’estero (specie la Svizzera): ben 402, laddove nella precedente edizione erano stati 277 (molto ha giovato l’inserimento del bando su Internet). Ciò ha comportato uno sforzo notevole nella cernita preliminare, dovuta all’abnegazione di una bravissima selezionatrice, dalla cui relazione stralciamo un’osservazione di carattere generale («Anche in questa edizione dominano i temi legati al personale, al ricordo, allo scavo interiore […], mentre sono pochissimi i testi storici e fantastici») e la diagnosi conclusiva («La scelta dei romanzi da segnalare non è stata particolarmente difficile, per il numero non elevato di testi veramente validi. Più numerosi i racconti degni di nota e quindi più faticosa la selezione»). Di fatto, la Commissione si è trovata davanti non alle rituali due cinquine ma a due manipoli di 7 testi ciascuno.
Cominciando dai romanzi, la serie comprende, in ordine alfabetico: Giampiero Attanasio, Il secondo mondo; Rossella Bandini, In parti eguali; Elide Ceragioli, Non sai mai chi puoi incontrare; Claudio Garbato, Mal di famiglia; Anastasia Laurelli, Io non devo essere niente; Giovanna Nieddu, Il narratore; Gavino Zucca, Miruardò.
A un primo esame, i Commissari si sono trovati concordi nel ritenere più deboli le prove di tre fra i sette autori, pur degni di ogni rispetto per l’impegno da loro profuso. Ciò si dica per l’ammirevole Anastasia Laurelli, ancora minorenne (1997), la quale mette in scena un’adolescente insicura, piena di malanni e di fobie, sempre in contrasto coi genitori ma in sintonia col fratello (pur destinato a una morte prematura) e capace di un lento e vittorioso percorso di maturazione. Qualche ingenuità nella strategia narrativa (tutta in terza persona, a parte un diario e certe lettere, con flussi di coscienza segnalati dal corsivo), cui corrisponde uno stile patetico-evocativo, con qualche caduta di lessico (divertenti le citazioni, in epigrafe iniziale, anche da più o meno note canzoni anglosassoni).
Più omogeneo, ma in certa misura più scontato, il romanzo di Giampiero Attanasio, nel solco della Lettera al padre di Kafka (quadro emblematico di una generazione dove la mamma aveva l’emicrania, il papà non sbagliava mai e i bambini contavano meno di zero): anche qui, nel ricordo del figlio e sullo sfondo nostalgico degli anni Sessanta, un padre ingombrante e severo, grande amministratore, sempre scomodo per i familiari, ma inattaccabile per una integrità intransigente, solo apparentemente anaffettiva (prima il dovere e poi il piacere, fra il rigore degli orari e la minaccia del collegio). Ma un padre che ha lasciato al figlio, voce narrante, un’eredità morale cui egli non cesserà mai di tributare quella gratitudine che il padre non si attendeva dai suoi beneficati.
Ancora più consapevole l’approccio narrativo di Claudio Garbato, che provvede a fornire, all’inizio, un sommario del suo lavoro, anche se la narrazione è tutta in prima persona: un’efficace rievocazione, da parte del giovane protagonista, prima bambino e poi studente universitario, della vita di una famiglia a Rovigo negli anni Cinquanta e Sessanta del “secolo breve”, dove la concretezza del cronotopo si rispecchia nella maestria con cui si schizzano macchiette di vita paesana, grazie anche all’impiego disinvolto del dialetto locale. Un dialetto che contribuisce al rilievo di certe figure, specie quella dominante della madre, sempre brusca e ironica, specie col marito (disarmato di fronte a quel forte carattere): vista prima nella difficile convivenza coi suoceri, poi affettuosamente seguita dal protagonista nel suo progressivo decadimento, fino al traguardo dell’incomunicabilità.
Di qualità certo superiore gli altri quattro romanzi, pur diversissimi fra loro. Quello di Elide Ceragioli è a tutti gli effetti un “giallo”, con un ingranaggio sempre coerente (nella prassi del “genere” la conclusione un po’ sbrigativa), anche se prende le mosse dall’incontro fra sei commissari di polizia per un aggiornamento a Firenze: una Squadra di fuoriclasse messa subito alla prova da un assassino seriale che ha l’abitudine di mutilare le proprie vittime. Nella brevissima postfazione non si tace di qualche aggancio all’esperienza reale dell’autrice, una neuropsichiatra infantile già nota per altre prove narrative, anche se il romanzo si definisce «frutto di pura fantasia». Lo stile è rapido, sempre efficace (specie nel dialogato), anche quando sfiora il grado zero della scrittura. Forse eccessivo lo spazio dato agli amori gay, ma sempre in modo garbato, grazie alla padronanza esibita nell’analisi psicologica dei personaggi (specie nel caso del commissario Carlo Dallolio e della collega Gabriella Franchi).
Giovanna Nieddu ha messo in scena una variante del “romanzo di formazione”, col ritorno alle origini del protagonista, Riccardo, che a dispetto di ogni previsione (degli amici e della zia), abbandona l’amatissima Parigi per ritrovare nella campagna senese le proprie radici; ed ecco la serie degli incontri che poco alla volta favoriscono la maturazione del giovane, fra il rapporto col fratellastro Tore, la perdita sconvolgente della madre e la sintonia col nonno Nero, contadino ex-alcolista ma faro della casa («La fatica della terra era una fatica attiva…»), il recupero degli oggetti antichi e l’incontro con la giovanissima Verena (quasi muta, ma tesa al recupero della parola), di cui si innamora; infine il ritorno a Parigi, ma solo per la morte dell’amico Maurice, quasi a suggerire il sugo di tutta la storia («Fa bene trovare il proprio dolore, provare la propria paura…»). Lo stile è particolarissimo, con periodi costantemente brevi, a singhiozzo, che direi quasi ungarettiani: ben adeguato alle frequenti “intermittenze del cuore”, con tratti, specie per il protagonista, di flussi di coscienza (non a caso a p. 22 si legge: «il narratore narra, il suo racconto è il suo corpo»).
Quanto a Gavino Zucca, fin dall’inizio egli dà voce al suo protagonista, Luigi, un ingegnere informatico giunto ai livelli dirigenziali, il quale vede i principi etici cui ha informato la sua esistenza via via smentiti dalla realtà aziendale, dominata dal rampantismo dei migliori, cui egli è costretto a cedere (p. 12: «mi ero lasciato risucchiare dal sistema»); mentre il rapporto con la moglie Chiara va logorandosi anche perché alle sue assenze in famiglia si aggiunge il primo tradimento, con una bella arrampicatrice. Aggregatosi ad un gruppo di amici, la Coterie, ritrova nel dialogo con costoro e nei comuni interessi, culturali e gastronomici, una giusta dimensione umana per il suo lavoro. Il meglio di questo romanzo sta forse nell’ironia con cui si rappresentano i rituali dell’universo aziendale, specie la mitografia dell’ottimizzazione. Non è invece indovinato il titolo (allusivo al gioco d’acqua, miroir d’eau, sul lungomare di Bordeaux, che sta al centro della scena conclusiva, con la ritrovata intesa fra i due sposi); colto, ma spesso costipato il dialogo; eccessive certe digressioni, per esempio quella a base di algoritmi (pp. 80 ss.); inutile il resoconto di uno spettacolo teatrale, La tunica di Diderot.
Di taglio completamente diverso il lavoro di Rossella Bandini, che non sembrerebbe rientrare nei canoni del romanzo, anche se l’autrice, insegnante di storia al liceo di Pescia, parte da uno dei topoi più caratteristici di quel “genere” (in particolare del romanzo storico), il recupero di uno scartafaccio – nella fattispecie, lettere e documenti compresi fra il 1823 e il 1896 -, per ricostruire con acribia filologica la storia e l’innamoramento di due personaggi reali, Angela e Andrea e dei punti di contatto fra le loro famiglie. Siamo ben lontani da un film come Possession: una storia romantica (2002), tratto dal romanzo omonimo di Antonia Susan Byatt (1990). Infatti, a volte la scrittrice sembra realizzarsi nella misura di un saggio (a un certo punto confessa di essere vittima di una mimesi linguistica che la induce a parlare e a scrivere in modo ottocentesco, e dunque decide di parafrasare i testi antichi che esibisce); a volte invece si induce a definire la propria opera come «un romanzo che si scrive da sé» (ma almeno una volta si pente di aver inventato la lettera di Andrea allo zio Disperati). Il sapore particolarissimo di questo prodotto, così rispondente alla plurivocità teorizzata da Michail Bachtin, si chiarisce alla luce della dichiarazione dell’autrice a proposito della sua «doppia vita», da una parte legata al suo quotidiano di insegnante e dall’altra all’inseguimento erudito dei segreti di quel carteggio, riemerso a Milano dopo la scoperta dell’archivio di Andrea. A questa complessità di piani narrativi, fra il romanzo epistolare e l’enciclopedia storica, col passato dei due giovani lombardi che interagisce continuamente col presente dell’autrice nel suo sviluppo giorno per giorno, si deve il fascino di In parti eguali, concordemente giudicato dalla Commissione degno del premio per il romanzo, grazie anche alla sua scrittura colta e raffinata, non disgiunta da un’amabile e ben dosata filologia. E’ uno di quei libri che forse oggi l’editoria commerciale escluderebbe, perché difficile da vendere; ma il suo sperimentalismo fa vittoriosamente i conti con la tradizione.
Venendo alla sezione dei racconti, un’attenta comparazione ha individuato un quartetto più debole (Luca Bianchedi, Fulvia Cipriani, Valter Ferrari e Michele Maria Santoro), di contro a una terna di maggior pregio, all’interno della quale Giovanni Larese ha raccolto il consenso unanime della Commissione rispetto ai pur validi lavori di Michele Piccolino e Simonetta Tassinari (quest’ultima già premiata per altra silloge nel 2006).
In una rapida rassegna, ci limiteremo a lodare la ricchezza e precisione descrittiva dei sei racconti di vita sanitaria nell’Italia medievale del medico Bianchedi, volti a sfatare la condanna che pesa su quei secoli anche nel settore terapeutico (ma l’apparato erudito è davvero troppo pesante, tollerabile solo in una tesi di dottorato). Così nel primo dei cinque racconti della Cipriani (che ha dato il titolo alla raccolta) la Commissione ha apprezzato la dimensione autobiografica con cui l’autrice, non più giovane, rappresenta la seconda guerra mondiale vista dai bambini che recitano Rigoletto e Butterfly in un rifugio antiaereo. Ancor più felice il titolo della silloge di Ferrari, comprendente dieci racconti di tono evocativo o intimistico (quasi, si direbbe, di un dannunzianesimo post-moderno), tutti impostati sul tema dell’attesa: a cominciare dal primo (Le finestre del quarto piano), con un cinquantenne in carrozzella che vive a distanza le vite degli altri; o dal secondo, dove protagonista è un ottantenne che ascolta il silenzio; per giungere alla figura di Calliope, una professoressa che «viveva d’arte e di poesia e portava il nome antico di una musa».
Sono appena tre i racconti di Santoro, ma non lasciano indifferenti, non tanto per la novità dei temi quanto piuttosto per la maestria espressiva, capace a volte di una certa autoironia: così, nel terzo, si allude a testi scritti in «un linguaggio estremamente barocco, con un sacco di paroloni e termini arcaici – anche se sono ambientati ai giorni nostri -, come se l’autore volesse fare bella figura a tutti i costi» (sarà un caso, ma nel primo, Sassicaia, il protagonista, un musicista squattrinato, si deve separare dall’adorato clarinetto per pagare il conto al ristorante dove ha invitato una bella ragazza: quasi una estrosa riedizione della novella di Federigo degli Alberighi).
Nella terna dei migliori, si conferma la bravura spontanea della Tassinari, più abile tuttavia, questa volta, nello sviluppo dei motivi narrativi e nella coerente ambientazione (al centro sta il piccolo mondo di Vico del Molise) che nel dominio della scrittura, spesso abbastanza sciatta, non senza cadute di stile (non si dimenticano però le figure del suocero invadente ma generoso nel primo racconto e della nonna di Davide nel quarto). Si impone dunque una difficile scelta fra le sette storie ciociare di Piccolino e i nove racconti veneti di Larese.
Un gusto bozzettistico domina nella silloge di Piccolino, tutta ambientata nel paese di Cavafratte, con una galleria di macchiette che alla lontana può ricordare Piero Chiara (penso alla figura di Teresa che si riscatta da un matrimonio infelice imparando l’arte della parrucchiera), ma forse più da vicino Giovannino Guareschi (specie nel primo racconto, con le elezioni politiche del 1948). Di ben maggior respiro e originalità i Racconti di Villapluvia, i quali abbracciano un ampio arco storico: dagli anni Sessanta dell’Ottocento, che preparano l’annessione del Veneto all’Italia, fino alle due guerre mondiali e alla tragedia del Vajont (1963). Vi si coglie il temperamento di uno storico, non ignaro della lezione delle Annales, specie nella rivisitazione di usi e costumi che innerva le tante mini-vicende dei singoli. Larese, insomma, innesta nella narrativa di cronaca il passaggio del tempo e l’inseguirsi dei decenni, così che ne viene fuori uno spaccato di microstorie che costruiscono cento anni di vicende drammatiche e dolorose di una terra. Ma si apprezza anche il dominio dello strumento linguistico, capace di metafore non usuali («le gibigianne di un ottimismo sconsiderato») e di rare allusioni folcloriche («le anguane, le ninfe fluviali dai piedi di capra»). Sono tutti pregi incontestabili, che hanno indotto la Commissione, unanime, ad assegnare il premio di quest’anno, per i racconti, a Giovanni Larese.